Il rame è ampiamente usato in agricoltura per combattere malattie e parassiti delle piante: per esempio da oltre un secolo è utilizzato contro la peronospora della vite, che può causare danni gravissimi alla produzione di uva. E se da un lato è un metallo indispensabile per alcuni meccanismi biologici delle piante- gioca infatti un ruolo chiave nella fotosintesi e nella sintesi delle proteine - dall’altro però non ne va sottovaluta la tossicità. Si deposita infatti nei primi strati del terreno, influenzando negativamente la vita microbica e lo sviluppo di batteri, alghe, funghi e lombrichi. “Il rame che viene utilizzato come antiparassitario tende in pratica ad accumularsi nell’ambiente, in particolare nel suolo - spiega Stefania Tegli, ricercatrice del Dipartimento di scienze delle produzioni agroalimentari e dell’ambiente dell’Università di Firenze -. E, dal terreno, può raggiungere e inquinare le falde acquifere, determinando gravissimi rischi ambientali ed ecotossicologici su un ampio spettro di organismi e microrganismi”.
Per questo la Commissione europea ha finanziato con il fondo per l’ambiente LIFE+ il progetto After-Cu (acronimo di “Anti-infective environmental friendly molecules against plant pathogenic bacteria for reducing Cu”), coordinato dall’ateneo fiorentino, che si prefigge di promuovere la riduzione dei composti di rame tradizionalmente utilizzati come battericidi in agricoltura, anche biologica. “E ridurre l’utilizzo del rame come antiparassitario fa bene non solo all’ambiente, ma anche alla salute degli esseri umani e degli animali” ribadisce la biotecnologa agraria, responsabile del Laboratorio di patologia vegetale molecolare.
Infatti, oltre alla tossicità diretta dovuta al bioaccumulo del metallo nel terreno, l’uso ripetuto in agricoltura dei sali di rame come fungicidi e battericidi ha un effetto collaterale che non è assolutamente da sottovalutare: “il rame determina un aumento allarmante, nella microflora degli agroecosistemi, della percentuale di batteri resistenti agli antibiotici, che finiscono col costituire una sorta di serbatoio di geni per l’antibiotico-resistenza. Questi geni sono presenti su elementi mobili del loro genoma, i plasmidi, che possono essere trasmessi con facilità anche ai batteri patogeni di uomo e animali, rendendoli così a loro volta resistenti agli antibiotici e vanificandone di fatto l’azione profilattica e terapeutica in medicina umana e veterinaria” spiega Tegli.
Ecco allora che il fine di After-Cu (con un budget di oltre 1milione e 200mila euro, cofinanziato dall’UE per il 50%) è testare la possibilità di sostituire l’impiego del rame come battericida con quello di piccole proteine innovative - che i ricercatori fiorentini hanno già sviluppato in laboratorio - dall’azione antinfettiva verso i batteri che causano malattie alle piante. “L’obiettivo specifico del progetto è dimostrare dunque l’attività anti-infettiva di questi peptidi che, a differenza degli antibiotici, non mirano a uccidere il batterio ma solo a disarmarlo, in modo tale che non possa sviluppare resistenza al trattamento. Sono molecole, cioè, antinfettive e non antibatteriche”.
“Recentemente - aggiunge la professoressa - sono stati già proposti interessanti esempi di nuovi fungicidi alternativi ai sali di rame, ma non esistono ancora sostanze analoghe attive contro i batteri patogeni delle piante. Carenza a mio avviso ancora più grave considerando che i cambiamenti climatici stanno ampliando l’area di diffusione di alcuni batteri fitopatogeni tipicamente estranei all’ecosistema europeo, così come stanno aggravando l’incidenza e la severità di quelli endemici”.
In particolare, i ricercatori vogliono valutare l’efficacia di queste proteine nel contrastare i batteri fitopatogeni Gram negativi, che sono tra i più diffusi e che provocano i maggiori danni in ambito vegetale. “Cosa interessante è che i meccanismi che rendono questi batteri patogeni per le piante sono strutturalmente e funzionalmente conservati anche nei batteri Gram negativi patogeni per animali e uomo. Per cui, se questa strategia risulterà vincente, potrà in futuro essere facilmente trasferita anche in ambito medico e veterinario, con scarso rischio di sviluppo di resistenze a seguito di ripetuti trattamenti”.
Insomma, dal progetto biennale che è appena partito, i ricercatori si aspettano anche possibili ricadute sulla salute umana. “Questo è sicuramente un risvolto non secondario della nostra ricerca, - spiega Tegli - poiché il controllo delle malattie di origine batterica, sia per gli esseri umani che per gli animali, dipende ancora esclusivamente dall’uso di antibiotici, per i quali esiste però il gravissimo problema, mondiale, che alla lunga i batteri sviluppano resistenze ai trattamenti, compromettendone in maniera allarmante l’efficacia. Quindi, poter contare su farmaci antinfettivi, da affiancare agli antibiotici, non è cosa di poco conto”.
Intanto, a partire dal 2002, per ridurre i possibili effetti negativi connessi all’utilizzo dei prodotti fitosanitari contenenti rame come sostanza attiva, sono state emanate disposizioni legislative comunitarie e nazionali: per esempio, nell’agricoltura biologica non si può superare la dose di 6 kg di rame per ettaro nel corso dell’anno. “Del resto - conclude la coordinatrice del progetto After-Cu - secondo recenti studi condotti in vari Paesi dell’Unione europea, l’uso continuativo, dall’800 a oggi, dei sali di rame come fitofarmaci ha portato a concentrazioni tossiche del metallo nei terreni agricoli, con livelli che variano tra 100 fino a 1.280 milligrammi per chilo di suolo, contro valori di 5-20 mg per kg di suolo in quelle aree non usate per attività agricole”.
Scrivi commento